Firenze. Iacopo Sozzi (XVII sec), cacciatore di vipere. Tappo di teriaca, Seconda metà del XVII sec. D/ D. IACOPO SOZI S(coricata) ORV attorno a immagine di una vipera. 20.12 g. 32 mm. Documento storico di grande interesse. In ottima conservazione. SPL. Iacopo Sozzi fu un famoso cacciatore di vipere, che collaborò con Francesco Redi nelle dimostrazioni sul veleno delle vipere. Fu infatti Redi a gettare le basi della moderna tossicologia e a studiare in maniere scientifica la. velenosità delle vipere. A seguito riportiamo un interessante passo tratto dall'Enciclopedia online Treccani.
Da Napoli arrivarono al principio di Giugno le Vipere per compor la Triaca nella Spezieria di S.A. Ser. alla di cui presenza, e di tutti gli altri Serenissimi Principi favellandosi di questi animali, e della gran parte, che egli anno nella composizione di quel maraviglioso antidoto, si venne a dire del lor veleno, e di quel, ch’ei fosse, ed in qual parte del lor corpo n’avessero la miniera (Osservazioni intorno alle vipere, 1664, p. 9).
L’interesse per il tema del veleno viperino, base essenziale per la preparazione della teriaca, il rimedio «da sempre applicato a vari tipi di morbi e avvelenamenti» era emerso, dunque, proprio l’anno precedente nel corso di una delle sedute del Cimento.
Qual è la sede del veleno? Come agisce e perché uccide? Che succede se viene ingerito? Sono, questi, alcuni degli interrogativi ai quali Redi, nella dimensione collegiale della scienza a corte, tenta di fornire una risposta mettendo a punto una metodologia di ricerca che, destinata ad affinarsi nelle Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, diverrà caratteristica della sua ‘arte della sperimentazione’.
Raccolte le varie ipotesi tra i presenti e constatato che l’opinione più diffusa tanto tra gli antichi quanto tra alcuni dei moderni autori era che a uccidere fosse il fiele dell’animale, ritenuto tossico anche se ingerito, si procede alla sua verifica sperimentale. Ad aprirla il celebre intervento di un certo Jacopo Sozzi, cacciatore di vipere al servizio del granduca, il quale, «appena dal ridere potendosi contenere» dimostrò l’innocuità del principio trangugiandolo d’un fiato senza riceverne alcun danno, dopo averlo diluito in mezzo bicchiere d’acqua.
Non potendo escludere che il rude Jacopo non avesse assunto in precedenza un qualche antidoto, l’esperienza viene replicata su una ricca serie di animali, tutti usciti indenni dalla prova. Stesso esito si ottiene stillando fiele direttamente sulle ferite, ponendo quindi il presunto ‘veleno’ a contatto con il sangue.
Escluso, dunque, il fiele come agente del veleno viperino, l’indagine si sposta sul ‘liquore’ giallo, simile per odore e sapore all’olio di mandorle, che ristagna nelle guaine che avvolgono i denti della vipera. Come per il fiele, anche di questo elemento si testano per primi gli effetti conseguenti alla sua ingestione. Ecco ancora in scena l’intrepido Jacopo che, indenne dopo averne bevuto una cucchiaiata, scelta una vipera «delle più grosse, delle più bizzarre, e delle più adirose», ne raccoglie in mezzo bicchiere di vino non solo tutto il liquido che riesce a ricavarne dalle guaine, ma anche «tutta la spuma, e tutta la bava» rigettata dall’animale (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 17), bevendola come se si fosse trattato di «giulebbo perlato» (pp. 17-18). Ripetendo la procedura utilizzata per il fiele, si passa quindi a sperimentarne gli effetti su una nutrita serie di altri animali e, ottenuto lo stesso risultato, si decide di verificare – sullo sfondo della scoperta della circolazione del sangue – «se per fortuna messo sulle ferite» non fosse cagione di morte (p. 22). Ebbene, nel giro di poche ore tutti gli animali così trattati muoiono, sia che il ‘liquore’ provenisse da vipere vive, sia che fosse stato estratto da animali morti anche da due o tre giorni. La conclusione che a seguito di ‘reiterate esperienze’ Redi può stabilire, facendo piazza pulita di una moltitudine di ‘errori’ provenienti tanto da autori antichi che moderni, è che la morte è direttamente conseguente all’inoculazione del liquido contenuto nelle guaine, liquore – si precisa – che non è «veleno, se non tocca il sangue» (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 55).
[Treccani on line. Sv. Redi Francesco, di Marta Stefani - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)].
Da Napoli arrivarono al principio di Giugno le Vipere per compor la Triaca nella Spezieria di S.A. Ser. alla di cui presenza, e di tutti gli altri Serenissimi Principi favellandosi di questi animali, e della gran parte, che egli anno nella composizione di quel maraviglioso antidoto, si venne a dire del lor veleno, e di quel, ch’ei fosse, ed in qual parte del lor corpo n’avessero la miniera (Osservazioni intorno alle vipere, 1664, p. 9).
L’interesse per il tema del veleno viperino, base essenziale per la preparazione della teriaca, il rimedio «da sempre applicato a vari tipi di morbi e avvelenamenti» era emerso, dunque, proprio l’anno precedente nel corso di una delle sedute del Cimento.
Qual è la sede del veleno? Come agisce e perché uccide? Che succede se viene ingerito? Sono, questi, alcuni degli interrogativi ai quali Redi, nella dimensione collegiale della scienza a corte, tenta di fornire una risposta mettendo a punto una metodologia di ricerca che, destinata ad affinarsi nelle Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, diverrà caratteristica della sua ‘arte della sperimentazione’.
Raccolte le varie ipotesi tra i presenti e constatato che l’opinione più diffusa tanto tra gli antichi quanto tra alcuni dei moderni autori era che a uccidere fosse il fiele dell’animale, ritenuto tossico anche se ingerito, si procede alla sua verifica sperimentale. Ad aprirla il celebre intervento di un certo Jacopo Sozzi, cacciatore di vipere al servizio del granduca, il quale, «appena dal ridere potendosi contenere» dimostrò l’innocuità del principio trangugiandolo d’un fiato senza riceverne alcun danno, dopo averlo diluito in mezzo bicchiere d’acqua.
Non potendo escludere che il rude Jacopo non avesse assunto in precedenza un qualche antidoto, l’esperienza viene replicata su una ricca serie di animali, tutti usciti indenni dalla prova. Stesso esito si ottiene stillando fiele direttamente sulle ferite, ponendo quindi il presunto ‘veleno’ a contatto con il sangue.
Escluso, dunque, il fiele come agente del veleno viperino, l’indagine si sposta sul ‘liquore’ giallo, simile per odore e sapore all’olio di mandorle, che ristagna nelle guaine che avvolgono i denti della vipera. Come per il fiele, anche di questo elemento si testano per primi gli effetti conseguenti alla sua ingestione. Ecco ancora in scena l’intrepido Jacopo che, indenne dopo averne bevuto una cucchiaiata, scelta una vipera «delle più grosse, delle più bizzarre, e delle più adirose», ne raccoglie in mezzo bicchiere di vino non solo tutto il liquido che riesce a ricavarne dalle guaine, ma anche «tutta la spuma, e tutta la bava» rigettata dall’animale (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 17), bevendola come se si fosse trattato di «giulebbo perlato» (pp. 17-18). Ripetendo la procedura utilizzata per il fiele, si passa quindi a sperimentarne gli effetti su una nutrita serie di altri animali e, ottenuto lo stesso risultato, si decide di verificare – sullo sfondo della scoperta della circolazione del sangue – «se per fortuna messo sulle ferite» non fosse cagione di morte (p. 22). Ebbene, nel giro di poche ore tutti gli animali così trattati muoiono, sia che il ‘liquore’ provenisse da vipere vive, sia che fosse stato estratto da animali morti anche da due o tre giorni. La conclusione che a seguito di ‘reiterate esperienze’ Redi può stabilire, facendo piazza pulita di una moltitudine di ‘errori’ provenienti tanto da autori antichi che moderni, è che la morte è direttamente conseguente all’inoculazione del liquido contenuto nelle guaine, liquore – si precisa – che non è «veleno, se non tocca il sangue» (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 55).
[Treccani on line. Sv. Redi Francesco, di Marta Stefani - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)].